Altro capolavoro, altra icona del Novecento. Massima espressione, priva di una qualsiasi traccia di retorica, di quel dolore indicibile, muto e rappreso.

The Bee Gees

Ecco, ditemi secondo voi quanti sono quelli che possono permettersi di presentarsi così conciati senza avere alcun timore di apparire kitsch.  E infatti, c’è poco da dire, i Bee Gees sono (stati) dei geni del Pop, dotati di un talento musicale davvero raro; alcune delle canzoni che scrissero nella seconda metà degli anni Settanta (Jive talkin’, You should be dancing, Stayin’ alive, Night fever, How deep is your love, More than a woman, Too much heaven) risplendono come stellae inerrantes nel firmamento della musica moderna. Bella fra tutte, Stayin’ alive, il loro masterpiece, un capolavoro assoluto, una delle icone del Novecento musicale.

Ciò che più ci colpisce, in Stayin’ alive, che anzi ci stende senza alcuna possibilità di replica, è il suo attacco. L’attacco di questo pezzo è assimilabile più a un fenomeno tellurico-erotico che a un fenomeno musicale: un autentico colpo di grazia a tutte quelle lente introduzioni che vogliono portarci alla musica “prendendoci per mano”, a tutti i fade in del mondo. Infatti: pigi play e in un decimo di secondo ti ritrovi ignudo e avvinghiato a Moana Pozzi e a Donna Summer in una sauna di sesso, senza avere il tempo neanche di levarti i calzini. Tale è la forza disarmante di quello straordinario riff iniziale di basso elettrico suonato nell’ottava acuta dello strumento e ricamato su uno straordinario paesaggio sonoro che si presenta, a sua volta, come un piccolo capolavoro di arrangiamento: sembra in effetti di trovarsi immersi in chissà quale oceano di suono, quando siamo invece di fronte a un regolarissimo loop di batteria, un paio di chitarre delle quali si avverte praticamente soltanto la pennata e un Fender Rhodes fantasma. Archi e fiati, poi, fanno il resto. Senza cedere un solo istante, fatta eccezione per un paio di cadenze che dilatano per qualche secondo la densa trama, questa meccanica erotica procede per quasi cinque minuti tenendo altissima la temperatura emotiva, suggellata da una prestazione vocale senza eguali (provate a cantarla voi o a farla cantare a chiunque altro e guardate cosa succede). Quella sicumera esecutiva poi, quell’esserci per davvero – stayin’ alive, appuntoche dimentico dell’essere e del suo piano esistenziale si concede tutto alla cosa e al suo piano esistentivo, mandando affanculo Heidegger e tutti i filosofi dell’über, viene ulteriormente enfatizzata dal testo. Well, you can tell by the way I use my walk I’m a woman’s man, no time to talk. Che direi potrebbe essere tradotto più o meno così: “Guarda[, stronzo,] che non è cosa: già da come cammino si capisce subito che mentre te sei lì che ascolti la canzone io ho già trombato la tu’ mamma, la tu’ sorella e tutte le tu’ ‘ugine”. Cazzo. Davvero: no reply. Puoi solo rimanertene lì liquefatto nel delirio erotico, spiacci’ato in questo panforte ormonale. È Barry, d’altra parte, che canta, il più sexy dei brothers, il nostro Khaled europeo con maracas e palle sempre dure – Barry Gibb, signori: quel meraviglioso, incomparabile prodotto di un fortunato frontale fra Mozart e Priapo.

E per finire, visto che in un post recente parlavamo di titoli: il titolo, come potremmo tradurlo in un italiano soddisfacente (nel senso di un titolo corrispondente che appaia sensato per una canzone italiana)? “Essere vivi”? No… brutto. “Io sono vivo”? Mah, mi pare questo lo avessero già usato i Pooh all’epoca (no comment, ovviamente, su qualsiasi pur minimo tentativo di paragone, essendo Facchinetti & Co. una sorta di zombie bulgari rispetto ai Gibbs e non solo sul piano bioritmico). E allora? Boh, non saprei proprio; suggeritemelo voi, se volete. Quello che conta è che questa splendida canzone, ne sono convinto, continuerà a lungo ad emanare quella forza vitale e dirompente che scalpita ancora a trent’anni dalla sua composizione e continuerà ad affrontare a testa alta, mostrando bianchi denti e peli generosi, tanti anni mariani a venire.

[PS Non sto a metterci il video, eh, tanto dopo du’ giorni ‘sti stronzi me lo levano…]

Storica performance di Giancarlo Cardini, uno dei protagonisti dell’avanguardia musicale italiana (e non solo) degli ultimi quarant’anni, davanti alle 65.000 persone del memorabile concerto per Demetrio Stratos (Arena Civica di Milano, 14 giugno 1979). Qui il grandissimo pianista e compositore fiorentino si cimenta in uno dei classici della ‘metamusica’ dell’epoca: il Cardini (1973), solfeggio parlante per voce sola di Paolo Castaldi. Presentatosi in smoking e papillon in un contesto ad assoluta maggioranza pop-rock (si esibirono, tra gli altri, Area, PFM, Banco, Finardi, Guccini, Vecchioni e Venditti), Cardini, con assoluta compostezza ed abnegazione, sfida eroicamente e infine doma un oceano di freaks in ciabatte.

An ending (ascent)

14 gennaio 2010

Ricordando lunghe passeggiate e lunghe conversazioni, ma soprattutto grandi risate, dedico questo meraviglioso pezzo di Brian Eno, tratto da Apollo. Atmospheres and soundtracks (1983) al carissimo Gabriele Di Luca, amico lontano dagli occhi ma vicino nel cuore.

Titoli (per np)

14 gennaio 2010

Alcuni compositori odiano i titoli. Preferirebbero segnare le loro composizioni con le etichette ‘numero 1’, ‘numero 2’, ‘numero 3’, etc. piuttosto che mettersi a cercare per esse un titolo ad hoc. Nel secondo volume dei Selected ambient works, per esempio, l’oscuro Aphex Twin contrassegna ognuno dei pezzi con un disegno geometrico anziché con un titolo, mentre Brian Eno, nell’ormai classico Music for airports, li contrassegnò con le espressioni numeriche 1/1, 2/1, 1/2, 2/2. Lo stesso Feldman, che pure ha escogitato alcuni tra i titoli più affascinanti ed enigmatici che io conosca (da Christian Wolff in Cambridge a Madame Press died last week at ninety, peraltro due fra i suoi capolavori assoluti), mostrò sempre un certo imbarazzo nel dover dare un nome alla sua musica ‘astratta’, tanto che quelli della sua casa editrice, la Universal, pare non fossero così contenti di ricevere pezzi per pianoforte intitolati ‘pianoforte’ o pezzi per tre strumenti intitolati ‘tre strumenti’. Altro caso interessante è quello degli Autechre, che invece danno ai loro pezzi titoli illeggibili come rsdio, c/pach o vletrmx21.

La questione dei titoli e del loro significato è una questione intrigante, che può essere, grossomodo, formulata così: il titolo che si dà a un pezzo di musica è soltanto una mera etichetta che consenta semplicemente di individuarlo, come un nome proprio, o una chiave simbolica la cui interpretazione ci consente di accedere ad aspetti profondi ed essenziali della natura del pezzo stesso? Talvolta i titoli sembrano assolvere una mera funzione denotativa, specialmente quando sono note le circostanze che li hanno occasionati. Un caso classico in questo senso è quello dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij: è a tutti noto infatti che questo capolavoro della letteratura pianistica fu ispirato da una serie di dipinti e di disegni che il compositore vide esposti a una mostra. I titoli stessi dei singoli pezzi (Gnomus, Il vecchio castello, Bydlo, La capanna di Baba Yaga, La grande porta di Kiev etc.) corrispondono a quelli di alcuni dei quadri della mostra. È giocoforza perciò presumere che ciò che si sente (la musica) sia in qualche modo la ‘traduzione sonora’ di un’immagine, o meglio l’espressione sotto forma di suoni delle emozioni che la visione dei quadri ha suscitato nel compositore. Ora, qui il musicologo (e ovviamente anche il critico d’arte) puntualizzerebbe che il termine ‘traduzione’ è grossolano e usato impropriamente: un quadro può tutt’al più costituire un pungolo, offrire uno spunto al compositore, ma in nessun modo, essendo basato su leggi formali profondamente diverse, potrebbe fornirgli il materiale o la struttura per una composizione musicale. Ma la questione è piuttosto questa: la visione del quadro ci aiuta a capire meglio la musica? E, viceversa, l’ascolto della musica ci aiuta a capire meglio il quadro? Io penso di sì. Un quadro e un pezzo di musica non si incontrano soltanto in un ipotetico punto tangenziale, per quanto proficuo possa essere per entrambe le parti: anche se apparentemente non mostrano evidenti affinità strutturali, essi condividono tutto un ambiente culturale e antropologico, si richiamano ed evocano reciprocamente e continuamente attraverso una serie infinita di sottilissime riverberazioni, di allusioni e di rimandi che illuminano sotto diverse angolature e prospettive il loro senso. Occorre cercare insomma di evitare sia l’eccessiva enfasi sulle rispettive autonomie linguistiche sia l’ingenua fiducia in una traducibilità per così dire orizzontale dei rispettivi domini estetici di musica e pittura (o di musica e letteratura – si potrebbe pensare la stessa cosa dell’Harold en Italie di Berlioz, che non può essere considerato semplicemente la ‘colonna sonora’ del poema di Byron a cui si ispira, non più di quanto questo poema possa essere considerato l’espressione verbale di una sinfonia concertante); occorre dunque porsi, piuttosto, in una prospettiva obliqua e problematica. La ‘traduzione’ insomma c’è, è possibile, ma è fatta di scarti, di vuoti e di continui incespicamenti; tornando a Musorgskij, se infatti essa sembra plausibile per i pezzi che portano i titoli dei quadri, risulta molto più problematica se si prendono in considerazione le cinque promenades la cui evidente funzione sia di ouverture che di trait d’union richiama solo formalmente il cammino intrapreso per passare da un quadro all’altro (a meno che non si voglia pensare, dato il carattere marziale e un po’ pomposo di almeno tre di esse, che il compositore si sia presentato alla mostra con un vestito da cerimonia e un pennacchio in testa).

Ora, quello dei Quadri di un’esposizione è appunto un particolare caso di titolo denotativo che fa riferimento, come in tutta la musica cosiddetta ‘a programma’, a un preciso e ben individuabile contesto extra-musicale. Ben più problematico è il caso in cui si dà a un pezzo di musica un titolo più allusivo, dai riferimenti più sfumati, come accade in certa letteratura romantica o barocca: cosa pensare, per esempio, di titoli come Papillons o Blumenstück dati da Schumann ad alcuni suoi pezzi pianistici o di sigle come ‘la diligente’, ‘les délices’ o ‘l’insinüante’, che Couperin apponeva ai pezzi componenti i suoi celebri Livres de clavecin? In quale aspetto dei pezzi di Schumann devo cercare le farfalle o i fiori e in quali caratteri musicali devo riscontrare analogie con la diligenza, la delizia o l’insinuazione nei pezzi di Couperin? E che dire delle immagini poetiche che Debussy pone in calce ai suoi Préludes? E quando ascolto una delle Gymnopédies di Satie, devo forse immaginarmi dei bambini nudi che danzano per apprezzarne al meglio il contenuto espressivo?

Insomma: il vincolo cui sembro costretto da un titolo è tale per cui sarebbe fuorviante immaginarsi altro da ciò che esso sembra suggerire? Certo che no. Ma allora posso tranquillamente prescindere dal titolo e cercare la verità di un pezzo di musica solo nella sua costruzione interna? Certo che no. E che dire, infine, delle tante composizioni e dei tanti dipinti dell’ultimo secolo intitolati ‘Senza titolo’? È un titolo, questo, o no? Se è scritto, è un titolo come un altro. Altrimenti, il pezzo (o il dipinto) privo di un titolo suole essere contrassegnato, secondo regola, come ‘pezzo senza titolo’, mettendo questa dicitura tra parentesi quadre, ad indicare appunto che si tratta di un pezzo ‘mutilo’, privo di una sua parte (essenziale, aggiungo io).

Ma ci dice qualcosa del dipinto o del pezzo, un titolo come ‘senza titolo’? Certo: ci dice se non altro che i titoli, in quanto parte costitutiva di un’opera d’arte, sono importanti.

Questo mi chiese un tizio dopo aver ascoltato Durchkomponiert per violino, pianoforte e cd, uno dei pezzi che hanno ricevuto il più basso indice di gradimento tra quelli che ho composto (non che gli altri abbiano suscitato deliri di entusiasmo presso folle oceaniche di ascoltatori, eh…).

Lasciando intenzionalmente da parte la spinosa (ma per molti fondamentale) questione del come e di che cosa è fatto un pezzo di musica, si possono, credo, voler esprimere tante cose attraverso la musica. Si può cercare di esprimere la forza di un mare in tempesta, la dolce carezza di una brezza rinfrescante, la nostalgia per qualcosa di irrimediabilmente perduto o una struggente passione amorosa. Ma si può anche cercare di esprimere la noia di un pomeriggio inconcludente, il lento spostamento di un grumo di polvere da un lato all’altro del corridoio, il sonno di una busta di nylon piegata e messa in un cassetto o quello che si prova a essere una ciabatta. E non mi si parli di indolenza, di inavvertenza o di furbizia: non dire nulla, o meglio cercare di non dire nulla, è come cercare di fare zero alla schedina – costa molta fatica. E ciò può significare anche voler esprimere non tanto ‘il nulla’ in sé, quanto quell’emozione peculiare, non necessariamente sgradevole, che si prova nello stare ad ascoltare qualcuno che non dice nulla o nel guardare incantati una sedia o un bicchiere. I have nothing to say, I’m saying it and that is poetry: è ancora John Cage ad aiutarci ad entrare in questa emozione vuota, o meglio bianca, ad entrare in uno spazio bianco appena turbato da una lieve carezza o da un breve sussulto.

Alla fine c’è sempre uno scarto, insomma, anche se è ovvio che la natura e l’entità di tale scarto non siano prevedibili né programmabili. Inoltre, ammesso che tale scarto si verifichi, lo si può percepire oppure no. E certo, il massimo che ragionevolmente ci si può aspettare da un pezzo come questo, ne convengo, è che dica ‘qualcosina’, che riesca ad esprimere proprio quella cosina lì. Non di più. Ma questo non è il senso ultimo di ogni cosa che scriviamo o costruiamo o dipingiamo – essere aderente allo scopo per cui essa è stata voluta e pensata? E forse converrete con me che è sempre meglio sperare di riuscire a dire qualcosa cercando di non dire nulla piuttosto che riuscire a non dire nulla cercando di dir qualcosa. O no?

Posture d’ascolto

8 gennaio 2010

L’amico Marco Zocchi mi ha mandato ieri via mail questa foto di qualche annetto fa della quale non avevo memoria e nella quale sembro assorto in una qualche lettura. “No, stavi ascoltando musica, me lo ricordo benissimo”, ha precisato l’amico Zocchi. Sono posture straordinariamente simili, quella della lettura e quella dell’ascolto. Ma mentre ci è facile immaginare posture per la lettura e più in generale per l’osservazione, ci è un po’ più difficile capire quale sia la postura ‘giusta’ per l’ascolto, nella quale lo sguardo deve necessariamente perdersi nel vuoto o addirittura annullarsi. Concentrarsi nell’ascolto sembrerebbe dunque significare ‘scendere in sé stessi’, come già suggeriva Boezio, circa millecinquecento anni fa, a proposito della cosiddetta musica humana.

Credo sia molto interessante porsi la questione di quello che succede durante l’ascolto, la questione del ‘cosa si ascolta quando si ascolta’. Com’è noto, Hanslick, nel suo fondamentale saggio sul bello musicale, aveva richiamato l’attenzione dei suoi lettori sul fatto che fino ad allora l’estetica musicale era stata considerata unicamente a parte subiecti. Era dunque necessario, secondo il grande musicologo boemo, abbandonare una simile prospettiva ermeneutica, interessata ad indagare soltanto i sentimenti suscitati dalla musica nell’ascoltatore, in vista e a favore di un tipo di ascolto per così dire ‘oggettivo’, tutto volto cioè a cogliere le caratteristiche strutturali e formali di un brano di musica, il cui contenuto non consisterebbe in nient’altro che nelle reciproche relazioni intervallari tra i suoni ed essendo quindi i sentimenti e le emozioni qualcosa di soggettivo, se non proprio di arbitrario, che vi aggiungiamo noi.

Hanslick naturalmente fece scuola e il suo saggio segnò l’atto di nascita della musicologia moderna, per la quale la musica non è più e non tanto qualcosa di cui si parla (e quindi qualcosa che va tradotto nella nostra lingua) ma qualcosa che parla da sé secondo un linguaggio autonomo e dotato di codici grammaticali propri. Questo approccio, che ha dato ovviamente meravigliosi frutti, ha dominato per più di un secolo e ha finito per occultare quasi del tutto quell’estetica del sentimento che oggi, come sembrano attestare segnali e proposte che provengono da più parti, si sente il bisogno di recuperare e riprendere in seria considerazione. E infatti, dopotutto, se c’è qualcosa di arbitrario nell’approccio ‘formalista’, è proprio questa netta separazione tra oggettività del linguaggio e soggettività dell’emozione da esso suscitata; è anzi in questo ‘suscitare’, nella natura misteriosa di questo incontro tra i suoni e la vita spirituale dell’ascoltatore, che va ricercata la verità dell’esperienza musicale. Riprendere in considerazione l’ascolto nelle sue varie modalità (dall’ascolto distratto praticato dai più a quello approfondito e concentrato che è capace di dischiudere universi emotivi di sconfinata bellezza) significa anche restituire finalmente la musica alla cultura, togliendole quell’aura di purezza che in fondo non le è mai appartenuta.

Chi è Zapruder?

5 gennaio 2010

Uno spettro si aggira nel Blog: lo spettro di Zapruder. Chi si nasconderà mai dietro questo pseudonimo? Ogni indizio al riguardo sarà gradito… 😉

Allora, che faccio, continuo?

A dir la verità, se dovessi tener fede al mio proposito iniziale, dovrei chiudere. Anche se non l’ho mai esplicitato, mi ero infatti ripromesso fin dall’inizio di sperimentare questa nuova forma di comunicazione dandomi una precisa scadenza annuale. Devo ammettere però che il successo di questo Blog è andato ben oltre le mie aspettative: 34.800 visite, 110 post con circa 1.280 commenti (per una media di circa 95 visite al giorno e di 9 post al mese con una dozzina di commenti ciascuno) non mi sembrano affatto pochi, soprattutto per un Blog tutto sommato ‘specifico’ come questo e tenendo conto del fatto che esso non è mai stato supportato da alcuna forma di promozione, a parte l’automatica importazione dei post nella mia pagina di Facebook. Anzi, colgo qui l’occasione per ringraziare tutti quelli che l’hanno onorato frequentandolo e lasciandovi dei commenti (dai più assidui come gadilu, np, tiziano, zapruder, protociccius, da, GattoMur, rino, lopo, Mago Afono, sassicaia molotov, MS, NoiZe-Box, ai più sporadici): a tutti loro, insieme alla gratitudine, vada il mio più sincero affetto.

Quanto al senso generale dei Blog e alla loro identità devo dire, inoltre, che RMB si è rivelato essere esattamente come lo avevo immaginato: una sorta cioè di diario aperto, di album, di zibaldone di pensieri che chiunque può commentare liberamente. Nessun post, neanche quelli più assurdi, è stato mai pensato come chiuso e autoreferenziale; anzi, l’apertura al dialogo, la possibilità di uno sviluppo dialettico tra più soggetti credo sia l’aspetto più interessante e affascinante di questa forma di letteratura virtuale e allo stesso tempo il suo più vistoso limite: nessun argomento può infatti venire portato, per ovvie ragioni, oltre un certo livello di approfondimento – ma, d’altra parte, ciò non è nemmeno necessario (per fortuna ci sono ancora i libri e le conversazioni reali, per questo).

Insomma, cari amici, io sarei propenso a continuare, sperando di mantenere la stessa velocità di crociera, per così dire, nella pubblicazione e nel commento dei post; ma, soprattutto, sperando di riuscire a non annoiare tutti coloro che mi faranno ancora l’onore di partecipare a questo Blog e ai quali chiedo qui, infine e se vogliono, di non peritarsi nel darmi consigli per apportarvi migliorie o nel segnalarvi dei difetti.

Un abbraccio e un augurio di buon anno nuovo a tutti.